UNA POCO NOTA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
SU “USO ILLIMITATO” E “USO LIMITATO” DELLE DECORAZIONI
Nel 1959 la III Sezione Penale della Corte di Cassazione (23 aprile 1959, n° 2008, Reg. Gen. n° 3909/59) emise una sentenza circa gli “Ordini non nazionali”, molto spesso bistrattati, ove non abbiano l’avallo di una dinastia ex regnante di sicuro prestigio.
Un autorevole commento di questa sentenza trovasi pubblicato nella Rivista Penale, annata 1961, II parte/ 1° fasc., come V § di un ampio articolo a cura di Emilio Furnò (Foro di Genova),
Se ne riproduce il testo (pp. 58-62), che sarà seguito da un breve commento.
Classificati “non nazionali” gli Ordini dinastici ereditari cadono sotto la disciplina dell’art. 7 della Legge 178/51, per cui i cittadini italiani non possono usarne, nel territorio della Repubblica, le onorificenze o distinzioni cavalleresche, loro conferite, se non sono autorizzati con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro per gli Affari Esteri.
I contravventori sono puniti con l’ammenda sino a lire cinquecentomila. Trattandosi di contravvenzione, è applicabile l’art. 162
C.P. che prevede l’oblazione con conseguente estinzione del reato.
Ai fini dell’esatta interpretazione ed applicazione della summenzionata norma, occorre prendere in esame la natura della “autorizzazione” e dell’ “uso”, che essa stessa norma richiama.
Il provvedimento, con cui il Presidente della Repubblica autorizza l’uso delle onorificenze e distinzioni “non nazionali” ed estere, è un atto assolutamente discrezionale, rimesso all’esercizio di facoltà e prerogative proprie del Capo dello Stato. Ha la forma di decreto, come indica la Legge stessa, e si riallaccia all’analogo decreto reale di autorizzazione, previsto nell’ordinamento della cessata Monarchia. Ed ha la medesima funzione, che è quella di parificare alle onorificenze e distinzioni dello Stato quelle “non nazionali” ed estere. Infatti, ottenuta l’autorizzazione, il cittadino italiano ne gode il pieno diritto, che comporta la facoltà di non specificare l’onorificenza.
L’autorizzazione deve essere promossa dall’interessato, con richiesta diretta al Presidente della Repubblica, tramite il Ministero per gli Affari Esteri, e corredata dai relativi documenti. Il Ministro dispone per l’istruzione della pratica, che comprende le indagini sulla personalità dell’istante, sulle sue condizioni sociali, etc.
La richiesta di autorizzazione può anche non essere accolta, data la discrezionalità assoluta del Presidente della Repubblica, il quale, nel concederla o denegarla, tiene conto di un complesso di circostanze, relative alla personalità del designato, alle sue benemerenze, alla sua posizione sociale, alle sue qualità morali, politiche, etc.;e tiene altresì conto della posizione e dei rapporti con lo Stato estero, o con l’Ordine “non nazionale”, che ha concesso la distinzione. Ma la valutazione di tutte queste circostanze non viene espressa, poiché il provvedimento, affermativo o negativo,, non richiede né in realtà comporta mai alcuna motivazione. Ciò spiega meglio il perché contro di esso non sia esperibile nessun reclamo né in via amministrativa né davanti all’autorità giudiziaria. Ma proprio per questo la domanda di autorizzazione può sempre essere riproposta, poiché possono mutare od essere superate le ragioni, che hanno consigliato il precedente diniego, o possono essere accolte le eventuali ragioni proposte dall’interessato.
Questo potere discrezionale rientra, come già accennato, nelle prerogative del Presidente della Repubblica e trova la sua giustificazione nell’art. 87 u. p. Cost. Rep., che gli riserva il conferimento delle onorificenze dello Stato. Sebbene molto ampio, tuttavia non deve confondersi con la potestà di riconoscere o meno la validità dell’onorificenza oppure la legittimità del suo conferimento. La stessa Legge precisa, senza alcuna possibilità di dubbio, che si tratta di autorizzazione all’uso delle onorificenze “non nazionali” ed estere e non si tratta quindi di altro. Sarebbe del resto assurdo andare oltre i limiti fissati dalla Legge, perché di tutta evidenza è che il Capo dello Stato italiano non ha potere di sorta negli ordinamenti degli Stati esteri o degli altri soggetti di diritto internazionale. Comunque l’art. 7 della Legge 178/51 non consente di andare oltre la sua chiarissima lettera.
Con il considerato potere, il Presidente della Repubblica ha in mano un efficace strumento per evitare abusi e per impedire che persone non degne godano di onori a parità o addirittura a disparità svantaggiosa per i concittadini. Efficace anche per equamente valorizzare, nel territorio dello Stato, Ordini equestri che si rendono benemeriti con attività di assistenza sociale o che danno lustro al paese per attività culturali, etc. Utile infine per colmare certe disparità di trattamento fra gli stessi cittadini italiani, non pochi dei quali, pur avendo benemerenze, vengono trascurati dagli organi competenti alla proposta per le onorificenze dello Stato. Il che accade più spesso di quanto non sembri.
Strumento, dunque, regolatore, sotto diversi, apprezzabili aspetti, ma non demolitore.
Passando, ora, all’”uso” delle onorificenze “non nazionali” ed estere, bisogna vedere quale ne sia il concetto utile e se sia fondata la
distinzione fra “uso pieno”ed “uso limitato”, elaborata in una recentissima sentenza penale della Corte Suprema Cassazione.
Secondo questa autorevole sentenza, chiara ed accurata, la distinzione è portata dalla stessa Legge e scaturisce dal confronto fra l’art. 7 e l’art. 8.
Osserva la Suprema Corte:
“Ed invero, mentre l’art. 7 stabilisce che i cittadini italiani non possono usare nel territorio della Repubblica onorificenze e distinzioni cavalleresche, loro conferite in Ordini Esteri o non Nazionali, se non autorizzati con decreto del Presidente della Repubblica, l’art. 8 – nel porre il divieto del conferimento di onorificenze, decorazioni o distinzioni con qualsiasi forma e denominazione da parte di enti, associazioni o privati – punisce l’uso, in qualsiasi forma e modalità, di dette onorificenze, etc. Sicché, mentre l’art. 8 pone il divieto dell’uso in qualsiasi forma e modalità questo si esplichi, nell’art. 7 si prevede soltanto l’uso. Ora è evidente che se il legislatore ha inteso – accentuando la tutela repressiva nella seconda forma di reato – attenersi nell’art. 8 ad un concetto di uso più ampio, ne deriva, per le esigenze di una valutazione unitaria della norma, il carattere differenziale assegnato al concetto di “uso” nei due articoli 7 e 8. E si deve ritenere che il diverso significato, reso palese dalla semplice lettura delle due disposizioni, corrisponde ad un preciso diverso intento del legislatore che, se avesse voluto riferirsi ad un concetto di uso da applicarsi indiscriminatamente nelle diverse situazioni, non avrebbe avuto necessità alcuna di scendere ad una specificazione ulteriore, eliminando la possibilità di un uso in qualsiasi forma o modalità. Questa diversità di disciplina legislativa è certamente da porsi in relazione con quelli che sono gli scopi stessi della tutela, che nel caso dell’art. 8 sono più specifici e più intensi perché trattasi di onorificenze, che provengono da Ordini non riconosciuti né riconoscibili ( perché sostanzialmente enti privati) e per i quali è vietato lo stesso conferimento”..
Così testualmente.
Proseguendo nella sua attenta indagine, la Suprema Corte pone in rilievo che il conferimento e l’accettazione delle onorificenze in parola non abbisognano di alcuna autorizzazione e sono fatti leciti produttivi, come tali, di effetti giuridici propri. Ma tali effetti non potrebbero consistere ed esaurirsi nell’aspettativa di ottenere l’”autorizzazione all’uso”, che non potrebbe nemmeno compiutamente configurarsi, trattandosi di atto assolutamente discrezionale, rimesso all’esercizio di facoltà e prerogative proprie del Capo dello Stato.
In altre parole, la Suprema Corte, rilevando il fatto storico, costituito dal conferimento e dall’accettazione dell’onorificenza, ne afferma la liceità e la conseguente efficacia giuridica,che non viene meno per l’eventuale mancanza dell’autorizzazione all’uso, la cui natura è già stata tratteggiata in questo scritto. Osserva di proposito la Suprema Corte che, se l’autorizzazione del Capo dello Stato riguardasse l’ uso in senso lato, comprensivo cioè del qualificarsi e del portare le insegne, occorrerebbe negare qualsiasi effetto giuridico all’accettazione, il che non è sostenibile, dovendosi ammettere l’esistenza di un particolare “diritto soggettivo” che sorge con il conferimento e l’accettazione dell’onorificenza. Se ne deduce quindi la possibilità di un “uso limitato”, che si attua con la precisazione della specie e della qualità dell’Ordine e del titolo cavalleresco e che perciò non urta contro gli interessi, posti a base della tutela penale.
Le argomentazioni della Suprema Corte risultano ineccepibili, perché vanno alla radice del fenomeno, il quale, come si è detto più volte, è produttivo di effetti giuridici.
E’ senza dubbio esatto che dal conferimento e dall’accettazione della onorificenza estera o non nazionale sorge un “diritto soggettivo dell’insignito”, sulla cui esistenza e legittimità non può influire, per le ormai note ragioni, la concessa o denegata autorizzazione del Capo dello Stato. Questi può soltanto consentire o negare il “pieno uso”delle esaminate onorificenze, il quale consiste nel diritto d’imporre l’ammissione in tutte le relazioni pubbliche o private.
Si è già detto che l’autorizzazione parifica alle onorificenze dello Stato quelle estere o “non nazionali”; qui va precisato che la parificazione riguarda proprio l’uso, restando salvo l’ordine di precedenza stabilito nel protocollo ufficiale. L’autorizzazione, insomma, valorizza l’onorificenza estera o “non nazionale” nel territorio della Repubblica, assegnandole la più ampia portata.
La mancata autorizzazione invece riduce l’uso dell’onorificenza “non nazionale” o estera, che deve pertanto essere precisata nella specie e nella qualità e che non ha ingresso ufficiale nelle relazioni pubbliche e private. Resta una qualificazione privata, lecita ma sfornita di tutela giuridica. Non mancano situazioni analoghe.
Nonostante il rigore circa l’uso dei titoli accademici e professionali, conseguiti all’estero, nessuno ha mai potuto negare ai titolari di qualificare, mediante opportuna specificazione, la natura e l’origine dei titoli stessi. Se è vero infatti che il laureato o il diplomato all’estero non può, senza la competente autorizzazione, inserirsi nelle rispettive categorie nazionali, nemmeno ai fini puramente onorifici, è altrettanto vero però che non viola alcuna legge , quando, sul biglietto da visita, carte personali, etc., o comunque nelle relazioni sociali indichi, con adeguata precisazione, il titolo o i titoli conseguiti. L’analogia è evidente giacché, sia nel caso di titoli accademici, etc., sia in quello delle onorificenze, il conferimento e l’accettazione non richiedono alcuna autorizzazione preventiva da parte dello Stato italiano: ed entrambi i casi presentano fatti leciti, che sarebbe irragionevole non voler considerare neppure ai limitati effetti della pura e semplice qualificazione.
Dalla impostazione, che precede, s’affaccia una non sterile distinzione tra diritto soggettivo ed interesse dell’insignito.
Il primo è portato, come si è visto, dal conferimento e dall’accettazione dell’onorificenza, appartenente ad Ordine equestre “non nazionale” o estero, legittimo nei termini sopra precisati; il secondo scaturisce dalla aspettativa, conseguente alla domanda di autorizzazione all’uso. L’uno comporta l’altro.
Il primo, qualunque ne sia la misura e l’efficacia nell’ordinamento italiano, è sempre un diritto, che non può venire soppresso da nessun atto né del Presidente né del Parlamento della Repubblica italiana, poiché questi istituti non ne possono sopprimere la fonte, esistente al di fuori della loro influenza. Possono solo agire sulla misura del suo esercizio.
Il secondo invece cade interamente nell’ordinamento italiano e si risolve in una semplice speranza, la cui realizzazione dipende dal potere insindacabile del Capo dello Stato; e non solo perché ancor più dipende dal potere, non meno insindacabile, del Ministro per gli Affari Esteri, competente a proporre l’autorizzazione nonché a rendere valido il decreto presidenziale, che da lui deve essere controfirmato ai sensi dell’art. 89 p.p. Cost. Potrebbe perciò accadere che la mancata autorizzazione non sia tanto dovuta al diniego del Presidente della Repubblica – il quale può ignorare persino l’esistenza della domanda – quanto del parere sfavorevole o dall’inerzia del Ministro. Come potrebbe accadere che, nella successione dei Ministri, il successore del proponente sia di contrario avviso e si rifiuti di controfirmare il decreto presidenziale di autorizzazione.
In queste situazioni, tutt’altro che improbabili, il disagio dell’interessato non trova alcun rimedio, non essendo previsto alcun reclamo né in via amministrativa né in via giudiziaria. Nel caso di onorificenza, concessa da Stato estero accreditato, potrebbe configurarsi il reclamo in via diplomatica. Ma, a parte il fatto che dovrebbe trattarsi di caso particolarissimo, non sembra ne sia conseguibile una risolutiva efficacia.
L’orientamento della Suprema Corte – che merita piena adesione
– ha, tra l’altro, il pregio di attutire l’eventuale eccesso di un potere così assoluto ed influenzabile; e tanto che non sembra rispondere ai principi informatori della Costituzione Repubblicana (artt. 2 e 3). Non si dimentichi che ogni Ministro deve di regola la sua nomina a considerazioni , spinte, intese, di natura politica, che lo accompagnano in tutta la sua attività. E, se è pensabile che il Presidente della Repubblica sappia elevarsi al di sopra delle varie correnti politiche – non mancano recenti esempi – tale distacco non può richiedersi al Ministro, politicamente responsabile verso il proprio Partito o verso le correnti di spinta.
Nello stato di diritto, quale è la Repubblica Italiana, non è concepibile che ragioni d’indole politica – o addirittura inafferrabili perché inespresse – possano prevalere, senza alcun reclamo, sull’interesse del cittadino, giustificato da un vero e proprio diritto, e persino quando sia sostenuto da autorevoli sentenze della Magistratura dello Stato stesso. Quando ciò accade – ed è accaduto come fra non molto si dirà – si crea, a dir poco, una inaccettabile indifferenza del potere esecutivo verso il potere giudiziario, la quale non può non incidere negativamente sulla comunità.
E’ auspicabile che l’esercizio negativo del potere in parola venga vincolato all’obbligo di motivazione e che sia concesso adeguato reclamo. Ne verrà sicuramente migliorata la funzione, di cui sono stati già esposti i vantaggi, con la garanzia necessaria per il particolare interesse.
A conclusione si osserva che l’uso, come sopra ristretto, mentre appaga una profonda esigenza di equità, assume di per se stesso la funzione di infrenare una troppo larga distribuzione di onorificenze non statuali>>.
Fin qui il Furnò.
E’ evidente che alcuni brani dello scritto sono ormai datati, essendo mutate – a distanza di tanti anni – modalità di presentazione d’autorizzazione, procedure, ecc.
Altro elemento da considerare è il momento politico in cui fu scritto il saggio. Se la sentenza della Cassazione è dell’aprile del 1959 e lo studio è stato pubblicato nel 1961, ci troviamo nell’ epoca Fanfani (salvo le due parentesi Segni [15/2/1959-25/3/1960] e Tambroni [25/3/1960-26/7/1960]): l’ “apertura” a sinistra del dinamico esponente della DC impensieriva il ceto moderato, che tradizionalmente aspirava alle distinzioni cavalleresche.
Ma veniamo alla sentenza.
Posto che esistono Ordini “secundum legem” (quelli della Repubblica, della S. Sede, di Malta SMOM, del S. Sepolcro), Ordini “praeter legem”, non vietati in quanto di Stato estero o non-nazionali, e Ordini “contra legem”, appartenenti ad “enti, associazioni o privati “, il succo è questo: se a una degna persona è conferita una onorificenza, e questa viene accettata, ne scaturisce il diritto soggettivo dell’interessato all’uso. Per la normativa della 178/51 l’insignito presenta domanda di portabilità: se essa è accettata, ne consegue il diritto all ‘ “uso pieno” o “uso illimitato”, in tutte le occasioni pubbliche o private.
Se la domanda non viene accettata, in quanto l’Ordine che ha conferito l’Onorificenza non è riconoscibile, resta il diritto dell’interessato all’ “uso limitato” alla vita di relazione sociale.
Come non viola alcuna legge un laureato all’Estero, che specifichi, su biglietti da visita o carta intestata, l’Università presso la quale ha conseguito il titolo, e la sua denominazione, così non viola alcuna legge l’insignito che, su biglietti da visita o carta intestata, specifica il suo grado, e l’Ordine che glielo ha conferito.
Ne consegue che Ordini “non-nazionali”, che non possono essere riconosciuti in quanto non aventi i requisiti richiesti dal MAE, possono conferire onorificenze ugualmente, e l’ uso di esse deve essere, in ottemperanza alla sentenza, esclusivamente limitato alle circostanze private di relazioni sociali.
Luglio 2010 r.r.
(da www.famigliaromano.it/pdf/DivOrdCav2.pdf)